L’ho raggiunta appena uscito dal lavoro. Avevo un abito blu elegante, una bella camicia, due cellulari infilati in tasca con la chiave elettronica della macchina. La penna USB da 128 Mb mi teneva occupate le mani. Leggermente abbronzato e con i capelli in ordine. Lei invece era lì nella bara che mi aspettava, immobile; un punto del corpo, forse l’ormai inutile baricentro, richiamava a sé tutta la carne e la pelle. E il suo viso stiratissimo cominciava a prendere la figura della morte. Le dita gialle e secche senza più voglia di aprirsi, e un abito che le ha sempre donato molto, ma che stavolta non voleva saperne di abbottonarsi.
“Non vediamo i morti – dice Borges – ma la morte“. Proprio così.
E tutto ciò che è stato sfigura: lo richiami alla mente per dimostrare a te stesso che invece è stata viva, che ti ha abbracciato e ti ha amato e che ciò che vedi non è “lei morta”, ma solo la morte. E mi sono ricordato di quando nei pullman delle gite mi spingeva sempre negli ultimi posti, con quell’ingenuità dei bambini per cui “dietro si siedono i casinisti”, presagio di chissà quale viaggio avventuroso. E invece mi versava nel cuore le sue confidenze più intime, i problemi col marito, il suo passato di disubbidiente per ricavarne, come per un giusto patto di amicizia, qualche informazione in più su di me. Mi sono ricordato di quando alla fine delle prove dello Stabat Mater di Rossini, ci ritrovammo commossi e simili, e senza la voglia di parlare, senza la necessità di parlare ci abbracciammo. Mi sono ricordato di lei vestita da zingarella che con malizia scenica mi guardava, in concerto, cantandomi “cinque tori in un sol giorno vo’ vederti ad atterrar“, senza riuscire a trattenersi dal ridere. Mi sono ricordato di quando feci un incidente con la macchina e lei venne a recuperarmi in una cunetta, mi accompagnò in ospedale, passando tutta la notte a farmi compagnia: “se non ci aiutiamo tra di noi che siamo da soli in questa città”, disse il suo accento piemontese, non ricordandosi che lei aveva un marito e delle figlie che l’aspettavano a casa. Per non farmi pesare la mia solitudine l’aveva fatta diventare solidarietà.
Questo fiore, dai colori tormentati, anelava all’anarchia, ma era esposto solo alla luce dell’amore. Come un papavero rosso in un campo di margherite.
Quando sono rientrato a casa, di fronte a me una luna gigantesca, bianca, che qualcuno si è scordato accesa in questa notte così fonda. Sufficientemente bassa da aprire alla mia vista le sue ferite più evidenti, così vicina da darmi la distanza con la terra come qualcosa di reale e misurato. Così grande e luminosa da disegnare ombre sulla Terra. Ho visto il mio pianeta piccolo e buio, ma soprattutto l’ho visto parte di uno spazio più grande, in cui è compreso.
La mia mente è confusa. Il mio cuore è annegato in uno strazio.
Se arrendersi all’idea che questa vita sia prosa oppure, come Emily, trovare “dimora nella possibilità”, e continuare a difendere il Poeta, continuare a interpretare i versi della morte e della bellezza.
Nel silenzio le parole di Amleto sono i miei salmi responsoriali; sento che non potrò dormire senza un buon calmante. Ma calmare cosa? I dubbi, il dolore, la paura, la rabbia, l’amore per i miei familiari e i miei più cari amici? Dovrei calmare tutto questo, fino a domattina. E poi lasciarli andare. E’ questo ancora il vivere?
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