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Una proposta per ridurre il vero costo della politica

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta “La casta” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ma forse anche da prima, da quando tramite catene di email cominciò a diffondersi la notizia dei super stipendi dei parlamentari e degli amministratori pubblici, rapidamente la riduzione dei “costi della politica” è diventata il nuovo mantra di una protesta trasversale, che parte dai movimenti extraparlamentari e – in tempi di crisi e di manovre – ha provato anche ad attecchire in qualche corrente di partito (in maniera più o meno convinta, più o meno strumentale).

Certo i numeri sono impressionanti. Secondo i dati forniti dalla Camera dei Deputati e dal Senato, un parlamentare arriva a prendere dai 14.000 ai 17.000 euro netti al mese, senza considerare altre forme di benefici (come la generosa polizza sanitaria o la tessera per la libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima e aerea per i trasferimenti sul territorio nazionale) e senza considerare l’accumulo di contributi previdenziali, validi poi per i “vitalizi”. Anche tra gli amministratori di Regioni, Province e Comuni le indennità non sono così scarse: per i Presidenti di Regione si va dai 7.000 agli oltre 14.000 euro; naturalmente l’ indennità di tutta la schiera di consiglieri e assessori viaggia sulle stesse cifre, essendo determinata quasi sempre come percentuale su quella del Presidente.

La questione evidentemente deve essere affrontata, ma occorre farlo senza demagogia.

Innanzitutto bisogna considerare che il vero costo della politica non è solo l’esborso economico che noi tutti affrontiamo per mantenere questi privilegi a un numero più o meno grande di politici, ma soprattutto il fatto che tale sistema nel tempo ha selezionato una classe politica motivata soprattutto dal danaro e dal potere: politici incompetenti e svogliati che non propongono leggi, non monitorano la loro applicazione, non sondano i bisogni della società e non sanno interpretarli. Non sono in grado di prevenire i problemi, spesso li aggravano, e non da ultimo forniscono un modello culturale di riferimento in cui dominano incompetenza e immoralità. È l’instaurazione di quella che Antonio Merlo, direttore del dipartimento di Economia della University of Pennsylvania, chiama “mediocracy“: una classe di politici di professione, mediamente ignoranti e irresponsabili. È sufficiente seguire il monitoraggio di Open Parlamento per rendersi conto dell’attività parlamentare. Quest’anno, ad esempio, i nostri parlamentari sono riusciti ad approvare solo 14 leggi, di cui non tutte sono illuminate: alcune sono in evidente conflitto di interesse con il proponente, altre sono molto discutibili (come la cosiddetta legge Levi). Sarebbe più che opportuno, dunque, riformare questo sistema. Ma come?

Alcuni propongono di dimezzare il numero dei rappresentanti e i loro stipendi. Sul primo punto non sono d’accordo. La democrazia è tanto più vera quanto più sono garantite rappresentanza e partecipazione. Ridurre il numero dei parlamentari o dei consiglieri degli Enti locali vuol dire creare un’elite aristocratica e poco rappresentativa, che non garantisce di per sé maggior competenza o responsabilità. Anzi, per assurdo, potrebbe comportare addirittura un impoverimento del già esiguo contributo politico. Ovviamente, al di là dei numeri, la legge elettorale ha il suo peso in questa selezione: sarebbe necessario poter scegliere i propri rappresentanti e purtroppo né il Porcellum, né il “riscoperto” Mattarellum vanno in questa direzione. Ma questo è un argomento che merita un’altra analisi.

Sulle indennità invece si può e si deve incidere. Le indennità dei politici hanno subito un aumento graduale nel tempo: non sono state sempre così alte e questo potrebbe bastare a fugare ogni dubbio sul fatto che tali stipendi siano giustificati da qualche motivo. Eppure di ragioni ne sono state fornite diverse; le due più accreditate sono che parlamentari e amministratori sacrificano la carriera personale per dedicarsi qualche anno alla politica, quindi è giusto remunerare meglio il loro lavoro e assicurargli, in più, una pensione “risarcitoria” (cosiddetto paracadute d’oro) oppure  – ed è la seconda ragione – che è necessario retribuirli tanto per preservarli dai vari livelli di “attività di influenza”.

La prima ragione è facilmente confutabile: i nostri politici non si dedicano alla politica solo per pochi anni, ma ne fanno professione. Il tasso di turn over parlamentare non è alto e si riduce ulteriormente se si pensa che la tantissime “new entry” provengono da altri incarichi amministrativi (una sorta di carriera interna che prevede la “promozione” dal Consiglio Comunale a quello Regionale, per approdare al Parlamento e infine – al termine della carriera, quando magari si è stanchi e senza troppa voglia di viaggiare – al Parlamento Europeo). Quando anche i politici effettivamente “sacrifichino” la loro carriera personale “solo per qualche anno”, se lavoratori dipendenti la legge già garantisce specifiche prerogative per il reintegro. In caso di lavoro autonomo, in effetti, il problema si porrebbe, ma è anche vero che un parlamentare che ritorna alla professione dopo il suo incarico politico (caso rarissimo, come ci racconta Gian Antonio Stella) potrebbe guadagnare di più di quando lo aveva abbandonato, perché la sua carica gli ha comportato una visibilità e una rete di relazioni che costituiscono un vantaggio professionale. Ovviamente ci sono casi in cui alcuni professionisti sacrificano redditi effettivamente più alti per svolgere il ruolo di parlamentare o amministratore. Ma il Parlamento non è un’impresa che deve accaparrarsi le menti più quotate sul mercato. Cerca le persone più motivate dall’interesse pubblico, dal bene comune. Nessun magistrato, avvocato di grido, commercialista d’assalto, matematico, nessun premio nobel è necessario se la sua missione non è sostenuta da quest’aspirazione. E tuttavia credo che sia possibile affrontare anche il mantenimento delle migliori professionalità all’interno degli organismi politici.

Per quanto riguarda la seconda ragione portata a sostegno delle super indennità, appare davvero sorprendente che si debbano pagare molto i nostri rappresentanti per far sì che non vengano corrotti. È un ragionamento davvero labile: vuol dire avere un pregiudizio negativo sulle persone che pure scegliamo che ci rappresentino, e per evitare che “cadano in tentazione” li corrompiamo a priori, riconoscendogli privilegi economici, che pure, nei casi più noti di malapolitica, non sono sufficienti a garantirne l’onestà: se scegliamo parlamentari disonesti e avidi, restano disonesti e avidi. Euro in più, euro in meno.

Dunque se davvero si vogliono abbattere i costi della politica occorre garantire un sistema che prevenga i casi di conflitti di interesse, che inasprisca le pene per i reati di corruzione e concussione (e che riporti a livelli accettabili la prescrizione per questi reati) e che riduca drasticamente i privilegi economici per i politici: si garantiscano a ciascun deputato le condizioni per venire incontro all’elettorato (dunque ben venga la tessera per viaggiare gratuitamente per tutto il territorio nazionale), ma si cancellino tutti gli altri privilegi. Si riconosca un’indennità di carica pari allo stipendio medio delle professioni intellettuali (o dirigenziali, a seconda del ruolo) per i politici che non provengono dal mondo del lavoro, e pari all’ultimo reddito che hanno dichiarato, per i politici che provengono dal “mercato”, stabilendo – ovviamente – un tetto massimo. E l’erogazione delle indennità sia correlata all’effettivo esercizio dell’attività politica e – per chi proviene dal mercato –  alla sospensione temporanea dal suo lavoro.

La democrazia e la politica hanno un costo che sosterremmo volentieri se producesse una buona amministrazione dello Stato e degli Enti, la salvaguardia dei nostri diritti, la conquista di nuove libertà. Ciò che va eliminata è soltanto l’idea che fare politica sia un privilegio riservato a pochi e non una responsabilità affidata a molti.

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