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Il senso del “pride”

In questi giorni, tanto per cambiare, si discute molto del razzismo e degli atteggiamenti discriminatori della destra. Mi imbatto in un messaggio apparso in un forum di “liberal”: “Siamo alle solite: la sinistra conformista strumentalizza la polemica scatenata dalla decisione del ministro Carfagna.  Io credo che potrebbe esistere un Pride di persone normali, vestite con abiti sobri e capaci di fare delle richieste specifiche, anziché vuoti proclami politici. Uomini con cravatta e donne con tailleur. Perché la sinistra non promuove questo tipo di manifestazioni, invece che la solita carnevalata?
La prima risposta che mi viene in mente è: perché non la promuove la destra una manifestazione così “sobria”?
Probabilmente chi propone un “Pride non provocatorio” non conosce l’origine della manifestazione, che rievoca i moti di Stonewall del 1969. Stonewall (oggi monumento nazionale) era un locale gay di Manhattan, oggetto di  continue “visite” della polizia, che trovava sempre dei pretesti per picchiare e arrestare gli avventori (non essendo reato manifestare la propria omosessualità). Per questo le vittime preferite dei poliziotti erano i travestiti, facilmente stigmatizzabili come “pervertiti”, vestendo in maniera impropria, e le persone trovate in situazioni indecenti (come lo stare abbracciati, avere un abbigliamento provocatorio, stare mano nella mano): le retate consentivano ai giovani di buona famiglia (chissà, magari quelli in giacca e cravatta, o tailleur) di dileguarsi prima che il pestaggio, la verbalizzazione e gli arresti avessero inizio. I gay non reagivano: si limitavano a difendersi o a scappare.
Il 27 giugno del 1969 era un venerdì, e dunque il locale era particolarmente frequentato. Lo stato emotivo dei clienti e del personale dello Stonewall era particolarmente teso per vari motivi (il periodo particolarmente carico di agitazioni e di rivendicazioni sociali, ma anche per la morte di Judy Garland, amatissima dal mondo gay, avvenuta in quei giorni). Fatto sta che all’ennesima retata degli uomini d’ordine, gli avventori del bar reagirono alle loro provocazioni: all’inizio fu un ragazzo, vestito da donna, che insultato dal manganello di un poliziotto (facile immaginare la provocazione dell’uomo “d’ordine”), glielo strappò di mano e lo usò contro di lui. Cominciò uno scontro vero e proprio tra omosessuali e agenti, che terminò con decine di gay arrestati o portati in ospedale. Il giorno successivo per la prima volta i giornali scrissero degli omosessuali “che rivendicano il diritto di vivere tranquilli”, anche se lo fecero usando la solita retorica machista, descrivendo gli “urletti”, i “mascara che colavano”, i “reggiseni che si slacciavano sotto le botte”. Tanto bastò per montare l’orgoglio degli omosessuali di New York: da quella sera si fecero trovare sempre dentro e fuori dal locale di Stonewall, per lo più vestiti da donna o in atteggiamenti provocanti (atteggiamenti comunque tollerati alle coppie etero). A loro si unirono manifestanti, simpatizzanti, esponenti della cultura, cittadini eterosessuali, mentre la polizia era sempre incaricata di disperderli.
Il 28 giugno di ogni anno i movimenti gay ricordano quell’evento triste, ma liberatorio, attraverso lo stesso “orgoglio” manifestato dai loro predecessori. Ecco il senso del “pride”. Il film di Nigel Fitch può aiutare a capire meglio quegli eventi, persino alla Carfagna.

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