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Gomorra

Roberto Saviano avrebbe il viso di un ragazzino, ma la barba gli conferisce maturità, esperienza e saggezza. Ha il merito di scrivere inchieste sul meridione, ma anche il limite di ritenersi l’unico possessore di verità scomode. Si paragona a Pamuk, Politkovskaja, Rushdie, anche se il suo unico libro e i suoi articoli sono un esempio di politically correct; scrive sempre in prima persona, ha una prosa ricca di parole dotte e di citazioni letterarie (il più delle volte inutili); il suo è uno stile autocompiacente fatto di frasi cortissime che dovrebbero acquisire, per questo, tutte autonoma rilevanza. Mi sembra chiaro: trovo che il suo ego smisurato sia di una noia mortale.
Non declina l’invito a programmi televisivi (non necessariamente per disquisire di camorra), interviene in programmi radiofonici della Rai (anche qui i suoi discorsi fragili sono intervallati da lunghe pause intellettuali), si lascia fotografare per varie riviste sempre in pose melodrammatiche e senza sorriso. L’ultimo numero dell’Espresso (è il gruppo editoriale per cui scrive e che, con la Mondadori, lo promuove così tanto) lo ritrae in bianco e nero e gli dedica addirittura una copertina (l’ennesima a dire il vero) in cui compare il suo nome (“Io Saviano, condannato a morte”) e ancora articoli autoreferenziali. Un gruppo di ragazzi ha lanciato un appello sul web per “esprimere solidarietà” nei suoi confronti. Il Ministero degli Interni gli ha affidato una scorta; sinceramente trovo che la cosa sia un po’ eccessiva: non ho niente contro di lui, semplicemente non mi piace come scrive. Semmai me la prendo con tutti quegli agenti letterari e uomini di marketing che sostengono questo meccanismo.

 

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