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Nell’era della tecnica

Nell’era della tecnica

Ormai l’Italia è piena di Università di dubbio livello e di lauree vendute a prezzi di mercato; parallelamente stanno tornando di moda i liberi pensatori, che fuori dall’organizzazione accademica divulgano le proprie ricerche attraverso seminari, conferenze, pubblicazioni ben distribuite e lectiones magistrales presentate come veri e propri eventi. Per imparare, dunque, non ci resta che prendere lo zaino e il sacco a pelo e seguire questi professori in giro per l’Italia, sempre che uno abbia la fortuna di incrociare una personalità che ispiri ammirazione e riesca a suscitare curiosità e domande. Anni fa mi è capitato di incrociare Valentino Salvoldi, allievo di Bernhard Haring; avevo ascoltato una sua intervista che mi aveva colpito molto. Così ho cominciato a leggere i suoi libri e appena se n’è presentata l’occasione sono andato a sentire una sua conferenza. Per sei anni l’ho seguito nei campi scuola che organizzava in Italia. Quell’esperienza mi ha migliorato molto, mi ha fornito una maggiore cosapevolezza delle mie capacità e dei miei limiti, mi ha riconciliato con Dio offrendomi una chiave di lettura del vangelo finalmente plausibile, mi ha aperto al mondo dei sentimenti come unico strumento per realizzare quella coincidenza di aspirazioni che ogni uomo ha dentro di sé: la libertà e la salvezza. Appena terminata "la scuola" di Valentino mi è capitato di imbattermi in un altro filosofo morale: Umberto Galimberti. Lui è più famoso e "commerciale" e ne ho avuto prova domenica scorsa, quando sono andato a sentire una sua "lectio magistralis" al Festival della Filosofia di Modena: dopo mezz’ora di fila per riuscire a entrare nel Teatro comunale stracolmo (oltre mille posti a sedere) siamo stati dirottati presso una chiesa, in cui la lezione veniva trasmessa in diretta su un mega schermo. Arrivati alla Chiesa abbiamo scoperto che anche questa era già piena di spettatori e che per motivi di sicurezza non potevamo entrare; ci siamo diretti così in Piazza grande, in cui sotto la pioggia torrenziale, altre centinaia di persone seguivano la diretta su un altro video. Il risultato è che ho ascoltato solo 20 minuti della sua lezione, intitolata "L’uomo nell’era della tecnica", ma sono stati sufficienti.


Al centro della lezione di Galimberti c’è la tecnica, vista come il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni (è un’intuizione di un altro filosofo, citato, ma di cui mi è sfuggito il nome. Forse Weber).
"Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico". Come salvarsi quando, come dice il filosofo, il bene e il male non sono più eventi morali, ma eventi tecnici? La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta. Galimberti porta degli esempi di questa realtà: quando gli autori dei crimini nazisti o l’aviatore che ha lanciato la bomba atomica vengono interrogati sulle sensazioni e le motivazioni dei loro gesti la risposta è sempre la stessa: "ho eseguito gli ordini, ho fatto il mio lavoro". Così pure l’operaio dell’industria di armi addetto agli stoppini delle mine antiuomo, fa bene quando è sicuro che lo stoppino sia efficace e la mina funzioni. Non importa se quel bene farà saltare in aria un uomo. Stesso discorso quando Bush dice: "andremo via dall’iraq, ma non prima di aver terminato il nostro lavoro". Potremmo rimediare a questo vuoto di etica mantenendo ferma la distinzione tra scienza e tecnica, tra agire e fare; dovremmo fare in modo che la scienza recuperi il suo valore umanistico e ponga limiti etici alla tecnica.

Ecco il perché di tutta quella gente a un Festival della Filosofia. Galimberti dà un nome al nostro disagio di esseri tecnici, ci aiuta a individuarlo e quindi a superarlo. Così ho vissuto il forte contrasto quando al termine della lezione siamo andati a visitare il bellissimo duomo di Modena; mentre salivo sul coro che sovrasta l’altare per avvicinare il mio sguardo ai mosaici splendenti dell’abside, si sono spente le luci e un inserviente ha allargato le braccia per tenerci lontano dal quella meraviglia, dicendo: "mi dispiace, stiamo chiudendo".

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