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Un week end post verista

Ieri sono andato nel paese di orgine di mia madre per vedere il rudere di una masseria che ha ereditato dai miei nonni. E’ una campagna arsa, assolata. Il rudere è poco più che un portale di pietra, un cancello arrugginito, qualche mezzo muretto, un albero di fichi cresciuto senza frutti nel centro di quello che doveva essere l’ambiente da giorno. C’è un ulivo di fronte la casa, selvatico, dai rami indomati da chissà quanto tempo. Poi solo erba ingiallita, pietre, rovi. Per aiutarci a ritrovare il luogo ci ha accompagnato Tonino, un anziano parente, gentile e ciarliero. Ci racconta la vita di quella che allora era una casa piena gente, in cui si cercava di essere autosufficienti, vista la lontananza col paese. Per qualche minuto ho cercato di ricostruire i luoghi con l’immaginazione, come si farebbe col computer: ho rialzato pareti, fatto transitare carri, persone indaffarate e bambini in guerra con la noia tra vasi di gerani e cani. Poi Tonino si sofferma su un fatto attuale: “La vedete quella casa all’orizzonte? Lì ci abitava Tuccio, un pastore. Tre settimane fa l’hanno trovato da solo, sul letto. Era morto già da qualche giorno. Aveva una quarantina d’anni. Se ne sono accorti perché le pecore non si vedevano più nei pascoli. Viveva solo, non aveva parenti o amici. Quando uno gli chiedeva qualcosa della sua famiglia mugugnava e non rispondeva mai. Di lui sapevamo solo che si chiamava Tuccio, e che veniva da un paese della basilicata. Tuccio, e non sapevamo neppure il cognome“.
Prendiamo la macchina e Tonino continua il suo racconto: “Non aveva nè un telefono, nè un televisore e neppure il frigorifero. Non veniva mai in paese a fare la spesa: alcune cosa da mangiare gliele portava il proprietario delle pecore che lui pasceva“. Non posso non pensare al “Canto del servo pastore”. Non riesco a credere che ancora oggi esistano persone che vivano in questa condizione di solitudine estrema. Nella mia mente risuonano i versi di De Andrè “prendi la tua tristezza in mano e soffiala nel fiume/vesti di foglie il tuo dolore e coprilo di piume“. Mentre andiamo diritti verso la casa del pastore, Tonino continua: “qualcuno dice che aveva ucciso la moglie, perché lei lo tradiva col cognato. E per un incidente, un giorno, aveva ucciso anche suo figlio, investendolo col trattore. Poi è scappato rifugiandosi in queste campagne. Ha trovato un lavoro nero, queste cento pecore da pascere, si è lasciato sfruttare dal propietario col ricatto della clandestinità“. La “casa” è un tugurio in rovina; la porta di ingresso è precaria e aperta: ci sono pochi segni di vita. E’ un’unica stanza, con al centro un braciere sul pavimento, una sedia, una branda. Non c’è elettricità, non c’è acqua corrente. Qualche stoviglia sporca, attrezzi per fare il formaggio o la ricotta, una bagnarola di plastica e qualche candela consumata, appoggiata direttamente su un tavolo. Idee sulla questione israelo-palestinese, mondiali, Fidel Castro, decreto Bersani da qui non sono mai transitate. E neppure notizie su quell’atto giudiziario di clemenza di cui oggi siamo tutti orgogliosi e che Tuccio, personalmente, invece non è mai riuscito a concedersi.

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