Skip to content

Il mio terremoto. 23.11.1980

Avevo 8 anni quando c’è stato il terremoto dell’Irpinia. Mi trovavo con la mia sorellina in una macchina parcheggiata accanto al duomo, ero al volante facendo finta di guidare. Nostra madre ci aveva lasciato lì qualche minuto per recuperare un’altra sorella che era rimasta in casa.  All’improvviso sentimmo il boato e tutto cominciò a ballare per attimi lunghissimi. Mi impaurii, perché credevo di aver messo  in moto la macchina, ma mia sorella mi spinse fuori, urlando: “è il terremoto!”.

Il pavimento in pietra della piazza sembrava una giostra fuori controllo, le persone impazzite correvano ad abbracciarsi in grossi gruppi: tutti gridavano, tra lampioni divelti e tetti e cornicioni che crollavano, ma non si riusciva a distinguere alcun suono perché tutto era coperto dal boato. Ricordo mia sorella che spalancava la bocca per dirmi qualcosa e io che le rispondevo urlando, ma per quanto potessi sforzarmi non riuscivo a sentire nemmeno la mia voce. O così mi pareva. Volevo dirle solo “NON VOGLIO MORIREEE”, e forse lei mi diceva la stessa cosa.

Ricordo molte cose. Il cappotto spigato di mia madre che mi soffocava: quando ci aveva raggiunti in piazza ci aveva steso a terra e si era messa sopra di noi per proteggerci da eventuali crolli. Per tanto tempo sono stato in giro per l’Italia presso parenti che a turno si offrivano di ospitarmi. Poi sono rientrato a Vallata, non so esattamente quando. Ho ricominciato ad andare a scuola: un container di lamiera che ci sembrava fighissimo, per il suo pavimento di linoleum (parola nuova e bellissima) pieno di avallamenti, il suo tetto basso e il bagnetto in fondo all’aula, e non in corridoio, come eravamo abituati. E sentivamo i rumori di chi ci andava, e ridevamo. Però il container era terribilmente gelido d’inverno e caldo d’estate.

Dopo un po’ di tempo mi sono ritrovato i nonni in casa, perché la loro era pericolante, o meglio inagibile, come avevo imparato a dire in quei giorni quando coi vecchi si andava a fare il giro delle abitazioni dei vicini per valutare in maniera profana la gravità delle lesioni (altra parola tutta nuova di cui andavo fiero: “papà guarda quella lesiòne!“, indugiando un po’ troppo sulla “o”, forse).

L’hanno ricostruita la casa dei nonni a circa trent’anni dalla sua demolizione. Più brutta e moderna di quella in cui andavamo a pranzare la domenica. Per fortuna, dico io, loro non hanno fatto in tempo a vederla così, con l’intonaco al posto della pietra e il gres porcellanato al posto del pavimento di mattoni; o la cucina, spogliata del camino e della fornace di mattoni bianchi e neri, sostituiti da una fascia di piastrelline di ceramica e una caldaia del gas. Per fortuna – ho sempre pensato – hanno avuto dei figli con una stanza in più. I miei nonni avevano una tempra infallibile, la pazienza, che non ha più nessuno, la fede, che hanno vissuto con una convinzione incrollabile. Sono morti con la speranza di poter vedere la loro vecchia bella casa ricostruita e invece non sanno che non l’hanno neppure lasciata ai figli quella casa. E’ un’altra casa e il mercato non gli dà alcun valore. Il paese è altrove. In un non luogo senza storia e senza futuro.

Nulla torna come prima, dopo un terremoto. Non solo le case. Ma ci sono cose che io ricorderò sempre e che – credo – hanno contribuito a darmi fiducia nell’umanità: i focolari accesi nella notte e che riunivano tutti gli abitanti del quartiere in un clima solidale e confidenziale, come non era mai successo prima. Ci si scambiava le cose da mangiare, le coperte, i giubbini. Le signore con le case agibili preparavano i ciambelloni e venivano a portarli a noi bambini; i mariti coraggiosi entravano in casa all’ora del telegiornale per venirci poi a riferire le ultime notizie. Le storie antiche ascoltate come fossero cartoni animati. I militari distribuivano un cioccolato buonissimo, fondente e senza marca, confezionato con la carta da pacchi e che – secondo alcuni – proveniva dallo spaccio (altra parola nuova), per questo era così buono. Il “sacco a pelo”, novità rivoluzionaria e i piumini. Le zie che mi ospitavano mi coccolavano oltre misura, pensando che in casa ricevevo lo stesso trattamento. E io che glielo lasciavo credere.

Persino le figure istituzionali ci sembravano molto familiari. Le parole sincere di Sandro Pertini rincuoravano tutti, e noi sapevamo di poter contare anche su qualcosa chiamata Stato.

One Comment