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Una formula italiana per l’integrazione. A colloquio con Laura Boldrini

Abbiamo incontrato Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), in occasione della presentazione del suo libro “Tutti indietro” (Rizzoli editore), nell’ambito degli eventi organizzati a Ferrara per il Festival di Internazionale. Subito dopo il dibattito ha accettato di rilasciare un’intervista per il sito di Sinistra Ecologia e Libertà.

La sala del Comune oggi era gremitissima. Ma in generale, signora Boldrini, che riscontro c’è sulle tematiche dell’immigrazione e protezione dei diritti umani?

Molto positivo. Qui a Ferrara ad esempio l’incontro è stato molto partecipato. Abbiamo parlato del mio libro e Concita De Gregorio ha condotto un’intervista sulle tematiche più scottanti dell’immigrazione: respingimenti, diritto d’asilo, le questioni legate alla paura, ma anche il fatto che esiste un’Italia che non ci sta al pregiudizio. Credo che quando queste tematiche vengano descritte in maniera diversa da come sono veicolate dai mezzi d’informazione, riescono a trovare molto interesse. Perché il pubblico è abituato a una versione unilaterale dei fatti, sempre mirata alla “sicurezza” che di fatto non mette in luce altri aspetti legati al fenomeno migratorio: l’aspetto umano, sociale, l’aspetto culturale, produttivo. Trovo che sia davvero riduttivo il modo in cui gran parte della politica e dei media in questi anni hanno raccontato l’immigrazione.

Il mio libro tenta di dare una nuova versione dei fatti. Il mio sforzo è quello di umanizzare il fenomeno migratorio, di far sì che a raccontare siano le persone che arrivano non quelle che ricevono i flussi, ma anche raccontare quell’Italia che invece con l’immigrazione si trova a proprio agio, ne vede i vantaggi, non ne ha paura, semplicemente perché è contemporanea.

È auspicabile che quest’approccio “emotivo” entri nella politica?

No, no. Non parliamo di approccio emotivo. L’approccio emotivo può essere anche fonte di decisioni poco oculate. L’approccio deve essere umano e basato sul diritto. Bisogna applicare il diritto, rispettarlo e nel contempo umanizzare il fenomeno, cioè capire che gli immigrati sono persone e i diritti fondamentali delle persone devono essere sempre garantiti. Spero non si arrivi al punto in cui il diritto del cittadino viene affermato a ogni costo su quello della persona. Oggi assistiamo a un fenomeno molto preoccupante: in alcune località, in alcune città, si sottolinea il diritto del cittadino mentre si erode sempre più il diritto dei non cittadini e questo mette in discussione il rispetto dei diritti della persona. Bisogna stare attenti: non giova neanche al cittadino che il “non cittadino” venga messo al margine, venga messo in una condizione di ingiustizia, di incapacità di risiedere sul territorio. Quello che sta accadendo in molte città è che gli stessi rifugiati, che sono equiparati – per diritti – ai cittadini italiani, non hanno la facoltà di poter avere l’iscrizione anagrafica, e quindi di poter risiedere in un posto. Eppure l’ordinamento prevede che ci sia iscrizione anagrafica anche per i “senza fissa dimora” che abbiano però domicilio sul territorio. Quindi il rifiuto che viene dato da alcuni Comuni è del tutto illegittimo perché queste persone dovrebbero poter avere l’iscrizione anagrafica. Ed è un passaggio fondamentale per l’integrazione, perché altrimenti, senza la residenza, non si possono godere i servizi previsti sul territorio. Quindi se davvero si vuol fare sul serio e si vuole lavorare per una società futura più composita e meno pronta al conflitto bisogna lavorare sull’applicazione del diritti.

Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio parlando alle Camere ha ribadito i risultati – che ha definito soddisfacenti – in tema del blocco degli sbarchi dalla Libia verso le coste italiane. È così?

È vero che c’è stata una drastica riduzione degli arrivi via mare. C’è da vedere quanto questo sia positivo! A nostro avviso non lo è per due ragioni: perché la politica dei respingimenti è andata a colpire direttamente i richiedenti asilo, quelli che sono tutelati dall’ordinamento italiano e internazionale (per cui ora queste persone non possono più usufruire di un diritto riconosciuto dalla costituzione italiana), e poi anche perché l’irregolarità continua a esserci comunque, perché gli immigrati entrano con un visto e permangono allo scadere dello stesso. Parliamo di stime ISTAT di 300.000-400.000 immigrati l’anno che entrano in questo modo. Da questo versante non ci sono stati cambiamenti o comunicazioni che raccontino un cambiamento.

Qual è la situazione in Libia in cui l’ufficio dell’UNHCR è stato costretto a chiudere? Qual è la possibilità di monitorare la situazione dei diritti umani dei migranti?

In Libia l’ufficio UNHCR è stato chiuso agli inizi di giugno su richiesta delle autorità libiche perché considerato illegale. Poi è stato riaperto a fine giugno, ma con un mandato più limitato, vale a dire che possiamo lavorare solo per i casi registrati già presso il nostro ufficio, cioè non possiamo acquisire nuovi casi…e questo è un forte limite! Siccome i negoziati sono ancora in corso noi speriamo di poter giungere a un accordo importante che consenta di formalizzare la nostra presenza e continuare a lavorare a pieno ritmo.

In Italia sembra che stia prevalendo – non solo sul fenomeno migratorio – un’ottica localista. Come si può superare?

Il localismo, come è espresso oggi, non aiuta chi lo mette in atto. Nell’era della globalizzazione il localismo diventa un’esclusione, che poi isola. Il localismo, soprattutto quando diventa identitario, nuoce proprio alle persone dei territori in cui viene applicato. È un modo di ragionare davvero poco contemporaneo. Bisognerebbe uscire dalla dimensione stretta del proprio orto, ma capire che c’è il mondo fuori che ha preso un’altra direzione. Chiudersi può voler dire perdere il treno. L’Italia potrebbe avere un ruolo europeo primario nella gestione del fenomeno migratorio e dell’integrazione, perché ce l’ha nel DNA, sia perché siamo frutto di contaminazioni e crocevia, sia perché noi siamo emigrati all’estero. Potremmo essere i promotori di una versione “italiana” dell’integrazione, una nuova formula. Ma tutto questo non c’è: non c’è nessuno studio, nessuna ricerca, nessuna politica. Si va avanti con la ricetta del “tutti indietro”, nel nome della paura.

Eppure nel libro racconta anche di un’Italia migliore. Come possiamo farla emergere?

Spero che sia data la possibilità a persone che sono portatrici di certi valori di poter farsi carico e diventare portavoce di questi bisogni. C’è sicuramente un’Italia che non si sente rappresentata oggi, che chiede con forza, invece, di poter contare, che è ancorata a valori importanti e fondanti di questo Paese. L’auspicio è che questo bisogno possa essere intercettato e che possa essere restituito da chi politicamente si senta a vicino a questo patrimonio di valori.

Anche sul sito nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà

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