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Riposi in pace, Sua Eminenza

Ho conosciuto il Cardinal Martini nel 1997, nel giorno del mio compleanno. Mi trovavo in Bosnia con un gruppo di volontari, impegnato in operazioni di ricostruzione post bellica. Lui venne lì per pochi giorni e, quando seppe che c’era un gruppo di volontari della Toscana, volle fermarsi con noi per celebrare messa. C’era una chitarra, e pare che l’unico che sapesse suonarla fossi io, così mi affidarono alcune melodie liturgiche che cercai di suonare durante la celebrazione religiosa. Il compito diventava via via più arduo, perché i riti della messa, le parole di Carlo Maria Martini, la partecipazione sentita di centinaia di persone che riempivano la chiesetta mi emozionavano profondamente e le lacrime che avevo negli occhi mi mostravano uno spartito impressionista, sul quale improvvisavo faticosamente degli accordi. Ricordo che con i miei compagni di avventura piangevamo e sorridevamo nello stesso tempo, commossi, ma anche divertiti per quello strano jazz che veniva fuori dalla mia chitarra.

Era il mio compleanno, dicevo. Fu il più bello della mia vita. Dopo la messa gli altri volontari organizzarono una festa a sorpresa nei locali attigui alla chiesetta. Un buffet povero, fatto di pane, peperoni bianchi, cetrioli e – per la prima volta dopo giorni e giorni di pane e peperone – cubetti di mortadella! Ricevetti anche un regalo: 3 ovetti kinder. Il cardinale Martini era un uomo immenso in tutti i sensi. Nell’eleganza del suo talare si avvicinò per farmi gli auguri di buon compleanno e per ringraziarmi per aver accompagnato la celebrazione eucaristica con della musica. Mi disse: “molto bello il brano fatto durante l’offertorio, non lo avevo mai sentito”. Mi vergognai un po’ perché sapevo che in realtà ero stato un disastro, ma rimasi in silenzio, impietrito dalla sua grandezza e dalla sua semplicità. Restò in piedi di fronte a me, mentre continuava a stringermi la mano nelle sue, mi fissò negli occhi per degli istanti che mi sembrarono eterni, tanto che interruppi quella conversazione muta con delle parole: “Sua Eminenza, mi sono commosso a messa e non vedevo bene lo spartito. Non so perché ero così scosso. Sarà che queste persone non parlano l’italiano eppure sono state tutte in silenzio ad ascoltarla. Guardavo i loro volti che pregavano. Siamo qui da giorni e l’unica difficoltà vera che abbiamo è la comunicazione: pochissimi conoscono l’inglese e una sola ragazza l’italiano. Invece oggi eravamo tutti insieme e mi è sembrato che parlassimo tutti la stessa lingua. Mi è sembrato di comprendere ogni gesto rituale e ogni sua parola mi è sembrata convincente per tutti, carica di significato. Mi ha dato tanti elementi su cui riflettere”. Lui restò in silenzio a fissare il mio sguardo, mentre io mi chiedevo dove avessi sbagliato, se “Sua Eminenza” fosse il titolo appropriato per rivolgermi a lui (ne avevamo discusso il giorno prima con gli altri e aveva vinto questa formula) o se avessi un po’ esagerato nella confidenza. “Sono sicuro che i suoi occhi – mi disse, congedandosi – continueranno a vedere cose così belle per sempre”. Avevo appena compiuto 25 anni e quella notte, ovviamente, al campo non chiusi occhio.

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